John Cage - Genio Incompiuto

Pubblicato il: 7 Luglio 2003

Undici anni fa, nell’agosto del 1992, moriva John Cage. Personalità vulcanica, di infiniti interessi, geniale, pensatore, musicista, anche se non sommo, micologo. Passati gli entusiasmi che una personalità così multiforme e prorompente genera, è intervenuta la riflessione a dimensionare e ridiscutere ogni cosa con la profondità e la completezza che la distanza nel tempo consente e favorisce.

Ancora oggi personalità autorevoli fanno le pulci a Cage e, contemporaneamente, altrove si tenta di celebrarne i fasti come per un grandissimo musicista.
Cage fu un innovatore, e innovatore geniale. Alcune sue affermazioni, come quelle sul silenzio e sulla sua importanza nella musica, la musica del silenzio, ma anche quelle sull'alea, e sulla gestualità, meriterebbero di stare da sole ciascuna su una pagina del grande libro della storia della musica. Ma anche per Cage, come per un altro caso a noi più vicino perché italiano, benché non per questo più noto, ci riferiamo al caso Maderna, i buoni propositi non finivano sempre nelle conseguenti buone azioni. Millantatori, allora sia Cage che Maderna? Assolutamente no, né l'uno né l'altro. Geniali l'uno e l'altro? Certamente. Acuti d'intelligenza tanto da essere preveggenti? Anche questo sì. Compositori rivoluzionari l'uno e l'altro? Assolutamente no, né l'uno né l'altro.
Dell'uno come dell'altro caso più d'una volta ha parlato anche Boulez, al quale certo la lucidità non manca, e che, a differenza dei suoi sodali, è invece anche un ottimo, diciamo grande compositore. Boulez in due diverse occasioni ha ribadito che se il decimo anniversario della morte di Cage è passato inosservato, una ragione ci sarà pure: correva più la mente di Cage, ha riassunto Boulez, di quanto non fosse agile la mano del compositore nello starle dietro. E perciò a guardarli con l'occhio impietoso della distanza, i suoi geroglifici musicali scoraggiano più di un esegeta dal dedicarvisi, scopo la loro decrittazione.
Comunque su Cage esistono già grossi volumi; chi la pensasse diversamente da noi potrà consultarli, bearsene, esercitarvi la critica militante effettiva, quale che sia il suo grado di attaccamento alla musica, passionale o intellettuale, o l'uno e l'altro insieme.
In questi mesi al MART di Rovereto, si tiene una mostra su Cage. Occasione ulteriore per approfondire le proprie convinzioni o per cambiarle alla luce degli studi più recenti. Ma a Rovereto, Cage è già innalzato agli onori degli altari per mano di un musicista amico e allievo.
In occasione dell'undicesimo anniversario della morte di Cage (1992-2003) non osiamo fare altrettanto. E allora intendiamo celebrarlo, meglio, ricordarlo a modo nostro. In maniera singolare, offrendo materia di riflessione, ma assolutamente di prima mano. Ci spieghiamo.
Venticinque anni fa, ai tempi della collaborazione di chi scrive con Paese Sera (che cos'era? Un bel quotidiano della capitale, anzi un tempo il più bel quotidiano di Roma; ma forse alla fine degli anni settanta era già in declino) avemmo modo di incontrare John Cage, di passaggio a Roma, mi sfugge se per un festival o per le stagioni della Filarmonica; senz'altro non a Santa Cecilia, non lo avrebbero mai invitato, non era considerato degno di entrare in quel tempio! Dovevo parlare di lui, in venti righe, per una di quelle rubriche ritenute sceme, e forse lo sono anche, ma che non passano mai di moda. La rubrica si intitolava "Cosa fa stasera". Rubrica di varia umanità, dove si poteva parlare di tutti e di tutto. Quella volta toccava a John Cage. Lo inseguimmo. Ci promise qualunque intervista, purché lo avessimo prima condotto a rifocillarsi in un ristorante macrobiotico qualunque.
Ci mettemmo in macchina e cominciammo a girare per Roma alla ricerca di un centro macrobiotico. Alla fine lo trovammo, per nostra fortuna, dalle parti di via Crescenzo. Scendemmo tutti, ma quel giorno era chiuso. Riprendemmo a girare per la città. Alla fine finimmo in un bar di terz'ordine, Cage ordinò tramezzini vari e birra, e lì la sua fede macrobiotica andò a farsi benedire. Comunque facemmo l'intervista, l'intervista uscì, sapeva sempre rispondere in modo geniale, non importa se quel che diceva non era geniale allo stesso modo, e cari saluti.
Passano gli anni, e giungiamo all'aprile del 1983, esattamente al 28 aprile dell'83, vent'anni fa esatti. Cage era nuovamente a Roma ospite dell'Accademia Filarmonica. Chi scrive allora dirigeva il mensile Piano Time e conduceva una trasmissione settimanale di Radio Tre, che aveva il medesimo titolo della rivista e di questa era nient'altro che la versione radiofonica. Gli telefonai la sera prima, gli ricordai l'episodio del nostro precedente incontro. Cage, per la sua buona memoria, se ne ricordava perfettamente. Gli domandai se gradiva fare un'intervista in diretta alla radio, nel corso della trasmissione "Piano Time". Acconsentì. Compensi zero! L'indomani lo prelevai assieme a un amico, professore in un'università irlandese con il compito di fare il traduttore simultaneo, e ci recammo a via Asiago. All'ingresso gli fecero firmare una liberatoria, ma neppure il suo nome avevano scritto bene. Andammo avanti con botte e risposte per tre quarti d'ora circa. Alla fine lo riaccompagnammo alla Filarmonica dove assieme a David Tudor aveva ancora da mettere a punto la performance della serata.
Quella chiacchierata, datata beninteso, ma spontanea e stimolante, può rammentare a quanti l'hanno conosciuto chi fosse John Cage, il suo carattere, la mente brillante, mobilissima, sveglia e vivace.
Insomma, in ragione dell'impossibilità di reperire quell'intervista, intendiamo riproporvela, per la prima volta, in questa versione, per rendere omaggio a un uomo a cui la musica e l'arte comunque devono qualcosa.
Ecco dunque il testo dell'intervista a John Cage, trasmessa in diretta a Radio Tre il 28 aprile 1983:
Prima di entrare negli studi Rai, Lei, maestro, accennava a una sua composizione per violino a cui sta lavorando. Ci vuole dire di cosa si tratta?
Mi riferivo a un progetto di lavoro violinistico che mi tiene occupato da tempo: 32 Etudes per violino solo. Non li ho ancora terminati. Spero di finirli entro quest'anno (1983 ndr.). Li chiamerò Freeman Etudes.
Quest'anno (1983 n.d.r.) festeggia quarant'anni di collaborazione con Merce Cunningham; e la compagnia del celebre coreografo americano celebra a sua volta i primi trent'anni di attività. Si sa che lei sta preparando un nuovo lavoro dal titolo Roaratorio che sarà presentato al Festival di Lille, in ottobre. È un lavoro con musiche in parte irlandesi in parte sue, che si avvarrà di 250 speaker, 56 amplificatori e alcuni musicisti per l'esecuzione dal vivo.
Già nel 1961 avevo composto un pezzo per la West Deutsche Rundkunk e per una radio cattolica irlandese. Si trattava di una lettura/interpretazione di testi tratti da Finnegan's Wake. C'erano suoni dal vivo - musica irlandese - eseguiti da un gruppo di musicisti irlandesi, suoni provenienti da luoghi menzionati nel Wake, e anche suoni già presenti - scritti! - nel Wake medesimo. Ho sviluppato quel pezzo. Ho preparato tutti i nastri con l'aiuto di John Fullermann, un ingegnere che vive in Svezia. L'opera, avrà il suo battesimo a Lille, con la coreografia di Merce Cunningham.
La sua passione per James Joyce è ben nota. Da dove nasce?
Ho sempre ritenuto che senza James Joyce non ci sarebbe un ventesimo secolo. A Samuel Beckett una volta fu chiesto di fare un elenco dei dieci più importanti scrittori del ventesimo secolo. Scorrendo l'elenco il richiedente notò che mancava fra gli scrittori più importanti del ventesimo secolo Joyce. Beckett rispose: "Joyce è di una classe a parte, è uno scrittore di un altro ordine".
È fuori luogo dire che fra le opere del grande scrittore Lei sia particolarmente attratto da Finnegan's Wake?
Mi piacciono moltissimo le parti di Finnegan's Wake pubblicate per prime a Parigi su una rivista che si intitolava Transitions, prima ancora che l'opera venisse pubblicata nella sua interezza. Quando nel 1938 fu pubblicata l'acquistai subito, pur non potendo prevedere quando avrei avuto tempo sufficiente per leggerla tutta. Negli ultimi anni sono stato… condannato a Joyce come a una prigione! Ho già scritto cinque composizioni ispirate da Finnegan's Wake. Il secondo di queste è alla base di Roaratorio.
Come mai fra i suoi interessi compaiono le opere di un filosofo italiano, Giambattista Vico?
Veramente è l'interesse di Joyce per Giambattista Vico che mi interessa. La forma/struttura di Finnegan's Wake è "circolare". Le ultime parole del quarto e ultimo libro si connettono alle parole iniziali dell'intera opera. E, certamente, l'idea del "ricorso" proviene da Giambattista Vico. Cos'altro in Joyce sia una reminiscenza di Vico non saprei dirlo. Ma credo che provenga ancora da Vico il motivo dei ten thunderclaps (dieci rombi di tuono) che attraversano Finnegan's Wake e che, se non vado errato, sono l'ultimo dettaglio inserito da Joyce nell'opera altrimenti già completa. Non ho mai letto Giambattista Vico, eppure ho cominciato parecchie volte. C'è qualcosa nella lingua, nell'inglese delle traduzioni di Vico, che mi rende gli scritti del filosofo italiano difficili da capire e quindi da assorbire nella mia vita come motivi ispiratori.
Il pianoforte "preparato" è una delle sue grandi invenzioni strumentali. Forse fra le più affascinanti, in assoluto.Come e perché "preparò" il pianoforte per la prima volta?
Mi fu chiesto di scrivere un pezzo per una ballerina di colore, Sybilla Ford. Lei doveva tenere uno show, un venerdì, e mi chiese il martedì precedente di scrivere un pezzo per il suo spettacolo di danza. Il titolo dello spettacolo era Baccanale. Doveva essere nelle intenzioni della ballerina uno show di forte sapore africano. E il teatro nel quale si esibiva non aveva sufficiente spazio per ospitare una nutrita batteria di strumenti a percussione.
C'era posto solo per un pianoforte. Non potendo, ovviamente, comporre in due, tre giorni qualcosa di adeguato per quell'unico strumento disponibile, mi misi alla ricerca di qualche composizione già esistente, ma non trovai nulla che facesse al mio scopo. Nulla che avesse, sia pur pallidamente, la qualità giusta riuscii a trovare. Niente che avesse caratteri da danze africane.
Allora mi decisi a comporre io stesso qualcosa, usando il pianoforte come strumento dal quale tirar fuori effetti simili a quelli delle percussioni. Mi sembrò, quindi, che l'unica soluzione possibile fosse quella di "cambiare, mutare, trasformare" il pianoforte stesso. Misi sulle corde pezzi di diverso materiale: legno, feltro, ferro, gomma. Sperimentai il suono giocando sulla tastiera. Capii immediatamente, con senso di grande eccitazione, di aver imboccato la via giusta. Ovviamente, però, i pezzi di materiale adagiati sulle corde non stavano fermi, saltavano in tutte le direzioni… Alla fine, provando e riprovando, trovai la soluzione più adeguata. In quel modo se ne stavano fermi al posto loro. Il risultato mi sembrò abbastanza soddisfacente.
Ciò che dice è tanto vero che ancora oggi molti compositori utilizzano le possibilità tecniche e timbriche, ma anche poetiche del pianoforte "preparato". Lo ha fatto di recente anche Aldo Clementi. Sa spiegarsi perché anche altri compositori, ancora oggi, ricorrono al suo vecchio pianoforte "preparato"?
Grazie alle "preparazioni" fatte in anticipo, è possibile trasformare il pianoforte in una specie di complesso orchestrale e poi anche in complessi di vario genere, e ciò può essere fatto anche all'interno di una medesima composizione. Così facendo, anziché avere sempre l'abituale, familiare ma unico colore timbrico del pianoforte, si ottiene una grande varietà timbrica e coloristica. L'idea e la pratica del pianoforte "preparato" sono diventate molto diffuse e vengono largamente impiegate non solo in ambito colto ma anche nella musica pop. Sono trascorsi già cinquant'anni da quando per la prima volta "preparai" il pianoforte. A pensarci bene non sono proprio cinquanta…diciamo quarantacinque.
Ogni tanto si torna a parlare della morte del pianoforte…
Non credo che il pianoforte morirà mai. È troppo… grosso!
Chi non sa del significato e peso della rivoluzione che l'arrivo di Cage a Darmstadt significò per i musicisti europei, negli anni cinquanta. E Lei, maestro, arrivando a Darmstadt cosa trovò?
Ho trovato molti giovani compositori, provenienti da molte parti d'Europa, con i quali strinsi subito amicizia e che mi sono tuttora amici. Erano tutti molto interessati a nuove idee e a sperimentare nuovi progetti poetici. In quell'occasione ebbi modo di presentare assieme a David Tudor musiche mie ma anche di altri compositori come Cristian Wolf, Morton feldmann, Earle Brown e di discuterle.
Con David Tudor Lei ha una frequentazione intensa. Ci dica qualcosa di lui. Noi lo conosciamo esclusivamente come pianista.
Secondo me Tudor è forse il più significativo musicista vivente. Da molto giovane, dall'età di 12 anni, era organista di professione a Filadelfia. Già a 17 abbandonò l'organo per dedicarsi al pianoforte. La sua scelta fu motivata dal fatto che egli trovava la letteratura pianistica più ampia di quella organistica. Non solo il pianoforte è "grosso", anche la letteratura per pianoforte è "grossa"! In tempi più recenti, Tudor ha smesso di suonare il pianoforte per dedicarsi alle esplorazioni del mondo della musica elettronica, da compositore. Egli stesso progetta, disegna e realizza i componenti elettronici, assemblando circuiti e costruendo sintetizzatori. La sua vita rappresenta un momento di transizione tra questo secolo e il XXI. Oserei dire che per la musica David Tudor è egli stesso il XX secolo.
Le sembra che Tudor ci abbia guadagnato con questo passaggio dal pianoforte all'eletronica?
Abbandonando il pianoforte egli ha certamente perso gli ottantotto toni del grande strumento. Ma, in compenso, può ora muoversi nel vastissimo campo dei suoni elettronici, dove può servirsi di suoni bassissimi come altissimi, di suoni microscopici e macroscopici. Non si tratta semplicemente di ampliate possibilità di frequenze, ma di effettivo ampliamento di tutti i parametri del suono. Posso perciò dire che se il pianoforte è "grosso" e vasto, l'elettronica è ancora più "grossa" e più vasta.
Le spiace illustraci brevemente la vita musicale negli Usa?
Beh… Regan non ci è sicuramente di aiuto. Ciò nonostante, andiamo avanti. In verità, la vita musicale in America, specie a New York, è molto ricca e vivace. E non mi riferisco solo alla New York Symphony Orchestra e alle altre istituzioni musicali ufficiali. C'è molto fermento anche in ambienti dove si pratica solo musica sperimentale. Sono stato molto felice di incontrare qui a Roma Giacinto Scelsi, un musicista le cui musiche di tanto in tanto abbiamo modo di ascoltare in America. La sua musica sperimentale mi piace moltissimo.
Dunque trova interessanti le musiche di Scelsi, soprannominato per il suo sperimentalismo, il Chalet Ives italiano. E dell'opera di Ives, quello "originale", cosa pensa?
L'opera di Ives è importantissima non solo per me, per ogni musicista. Specie per quelli impegnati a cercare e trovare nuove vie, nuove possibilità per la musica. Egli è stato un talento di grande capacità inventiva. E anche noi oggi procediamo seguendo il suo esempio.
Per l'Accademia Filarmonica Romana, Lei presenta un'opera che attinge ancora una volta a Joyce, e ancora una volta a Finnegan's Wake.
Preferirei rimandare ogni commento a dopo l'esecuzione, considerato che si tratta di una prima esecuzione assoluta. Tuttavia posso anticipare che ha a che fare con la mia quinta lettura del Finnegan's Wake; che sarà una forma di vocalizzazione, anzi una molteplicità di vocalizzazioni. Ma non si tratta di un parlato o di un cantato. Sarà un sussurrato. Naturalmente ci saranno anche piccole sorprese. E… ci aggiungerò anche un pizzico di Vico.
Mi permetta una domanda "scema", di quelle che però i lettori si attendono, almeno una per intervista. Pensi a una "voce" d'enciclopedia che reca il suo nome. Insomma, ci faccia un autoritratto, il più conciso ma completo possibile.
Cosa dovrebbe dire que
ta voce? E poi perché dovrei scriverla proprio io? Non saprei… Ho trovato. In America abbiamo un dizionario che si intitola The American Heritage. Un giorno lo stavo sfogliando. Arrivai alla lettera C e mi imbattei nel mio nome. La voce di quel dizionario diceva: Cage (virgola) John (due punti) 1912 (trattino per indicare che ero ancora vivo!) American Composer (punto). Conciso e completo!
Quando si pensa alla sua musica si pensa a una musica con le caratteristiche esemplari della poetica d'avanguardia: la circolarità, la mancanza di nessi e sequenze causali e unidirezionali, l'ambiguità strutturale… Queste e altre soluzioni operative si connettono con il suo evidente e dichiarato interesse per il pensiero orientale?
Uno dei fenomeni che caratterizzano il nostro tempo è il fatto che i diversi popoli e le diverse culture del mondo si sono avvicinati moltissimo. Quando ero giovane esisteva invece un'enorme distanza, divario e netta separazione fra il mondo occidentale e quello orientale. Oggi quella separazione non c'è più. E, per giunta, esiste un vasto scambio di idee fra le diverse culture. Le differenze continuano ad esserci naturalmente, ma ora le conosciamo. Le faccio un esempio. La filosofia orientale, specie in alcune espressioni rinvenibili in India, è molto differente da quella occidentale, specie dalla filosofia espressa dai pensatori tedeschi. La cui unica, forse principale preoccupazione era quella di cercare l'unità nella diversità delle corse, attraverso l'analisi dei rapporti logici, razionali e causali. Secondo noi occidentali, in base a tale pensiero, sembra che esista una sola via per raggiungere l'unità. In India, invece, pensano che ci sono quattro vie per raggiungere l'unità, quattro modi di usare la mente. Il primo consiste nel perseguire un fine; il secondo nel contemplare la bellezza, il terzo nell'affermare la verità. Il quarto, infine, nel liberarsi da ogni preoccupazione. E io aggiungo: anche da quelle imposte dalle prime tre vie.
Dopo Cage il silenzio? Cage è anche "silenzio"?
Non bisogna allarmarsi per il silenzio. Il silenzio non è inquietante. Dopo tutto, il silenzio è suoni!

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